Tornare. Un verbo che in Sardegna ha avuto a lungo il sapore della sconfitta, come se rientrare nell’isola significasse in qualche modo arrendersi a un destino di marginalità. Eppure, negli ultimi anni, tornare sta assumendo un significato completamente diverso: diventa un atto rivoluzionario, una scelta consapevole di futuro.

A Seneghe, borgo di 1.700 anime del Montiferru, sta accadendo qualcosa di straordinario grazie a un gruppo di giovani che sta riscrivendo il significato stesso del “ritorno”, non come ripiego, ma come scelta audace che sfida le narrative dominanti dello spopolamento delle aree interne.
Quello che rende unica questa storia è la sua dimensione collettiva. Non parliamo di singoli eroi che decidono di investire nella propria terra, ma di una comunità che si è ricomposta attraverso il ritorno. Undici giovani professionisti provenienti da vari settori – biotecnologi, ingegneri, architetti, operatori turistici, comunicatori, gastronomi, grafici, antropologi, operai – che hanno scelto di mettere in comune le proprie competenze ma soprattutto i propri sogni di cambiamento.
La cooperativa che hanno fondato porta un nome evocativo: Mussura deriva da “s’ora ‘e sa mussura“, il momento del plenilunio quando la tradizione sarda consiglia di sospendere il lavoro nei campi. Una pausa che, simbolicamente, questi giovani hanno trasformato in un momento di riflessione attiva, di progettazione del futuro. Hanno preso ciò che la tradizione indicava come un tempo di attesa e l’hanno trasformato in un tempo di azione e cambiamento.
Conosco personalmente alcuni dei soci di Mussura, e ciò che mi ha sempre colpita è la loro capacità di trasformare la nostalgia – quel sentimento che spesso accompagna chi torna – in energia progettuale. Non sono tornati per replicare il passato, ma per reinventare il presente. Il loro esperimento di rigenerazione territoriale parte dal vino, ma abbraccia dimensioni molto più ampie: il recupero dei saperi tradizionali, la creazione di nuove economie sostenibili, la riattivazione di legami comunitari che sembravano perduti.
Per alcuni è un’idea coraggiosa, per altri una follia, ma chi ha avuto modo di conoscere da vicino questa realtà sa che c’è qualcosa di più profondo: la consapevolezza che il territorio in cui si è nati non è solo un luogo fisico, ma un patrimonio di valori, conoscenze e possibilità che merita di essere preservato e reinterpretato. È questa la consapevolezza che hanno scelto di raccontare attraverso la terra, attraverso i vigneti recuperati, attraverso vini che sono narrazioni liquide di un territorio che rinasce.
Sono stata a trovarli domenica in occasione di un pranzo in collaborazione con chi, sin dall’inizio della loro avventura, li appoggia e sostiene condividendone valori e filosofia, ovvero lo chef Pierluigi Fais di Josto, originario di Bonarcado, paese poco distante e con cui hanno pensato a un pranzo abbinato alle quattro etichette di Mussura.
Tornare in Sardegna come atto rivoluzionario
Mussura nasce quando nel 2020 il mondo sembrava fermarsi, mentre a Seneghe stava invece germogliando qualcosa di nuovo. In quel momento di apparente immobilità, undici giovani hanno scelto di mettere radici nel proprio territorio, dando vita a un esperimento di agricoltura collettiva che oggi rappresenta un modello di innovazione sociale e produttiva.
Il progetto è partito da una sfida apparentemente semplice: recuperare 4 ettari di vigneti appartenenti ad anziani proprietari che non potevano più prendersene cura. Ma dietro questa scelta si nasconde una visione più ampia: quella di creare un modello di gestione collettiva del territorio che potesse diventare replicabile. In poco tempo, quelle vigne abbandonate hanno ripreso vita, arrivando a produrre 6.000 bottiglie, con una prospettiva di crescita che punta alle 60.000 unità. Numeri che raccontano non solo un successo produttivo, ma soprattutto la validità di un modello di sviluppo alternativo.
La scelta del territorio non è casuale. I vigneti di Mussura si trovano nella fascia collinare che circonda Seneghe, tra i 300 e 500 metri sul livello del mare. Qui, i suoli vulcanici del Montiferru conferiscono ai vini caratteristiche uniche, creando un legame indissolubile tra territorio e prodotto. Ma è nell’approccio alla coltivazione che Mussura mostra il suo carattere più innovativo: nei vigneti più antichi e ad alta densità d’impianto, dove le viti sono state piantate seguendo sistemi tradizionali, si è scelto di eliminare completamente i trattamenti fitosanitari. Una decisione coraggiosa che nasce dalla volontà di permettere alle piante di sviluppare le proprie difese naturali, adattandosi all’ecosistema in cui vivono.
Questo rispetto per i processi naturali si riflette anche nel lavoro in cantina, dove ogni intervento è minimale. I vini nascono senza filtrazione, senza chiarifica, senza acidificazione, in un processo che potremmo definire di “non intervento”. Non si tratta di un approccio dogmatico alla produzione naturale, ma della volontà di lasciare che ogni vino racconti liberamente la storia del suo territorio, delle sue uve, della sua annata. È un modo di fare vino che richiede pazienza, attenzione e una profonda conoscenza dei processi naturali, qualità che questo gruppo di giovani sta dimostrando di possedere in abbondanza.
I vini di Mussura: quattro espressioni di territorio e innovazione
La produzione di Mussura racconta la complessità del territorio attraverso quattro etichette distintive.
Erentzia racchiude nel suo nome un concetto profondo: in sardo “ereu” non significa solo eredità materiale, ma porta con sé il peso della responsabilità di ciò che spetta fare a una generazione che raccoglie il testimone da chi l’ha preceduta.
È un vino che incarna questa filosofia: un blend complesso ottenuto da oltre 50 biotipi di cultivar autoctone provenienti da 15 diversi appezzamenti, vinificato attraverso sette diverse macerazioni. Il risultato è un vino che racchiude in sé non solo l’essenza del Montiferru, con i suoi profumi antichi e la sua biodiversità, ma anche il senso di responsabilità verso il territorio.

Fundu Crastu, l’ultima creazione, è un unicum irripetibile che nasce da due dei vigneti più antichi del paese, coltivati ad alberello. Il vino, che prende il nome dalla zona storicamente più vocata alla viticoltura nell’agro seneghese, è un blend dove il Cannonau rappresenta solo il 20% dell’uvaggio, accompagnato da Pascale di Cagliari, Bovale Sardo, Monica, Barbera ed Alicante e altre varietà inferiori.

La sua unicità è accentuata dal fatto che il proprietario dei vigneti è purtroppo scomparso poco dopo la vendemmia, rendendo questa bottiglia un prezioso testimone di una storia che continua.
Astula porta nel nome una duplice lettura che ne arricchisce il significato: in sardo “astula” significa sia scheggia di legno che indole, riferendosi a come un comportamento viene plasmato dalle circostanze.
È un vino che riflette questa capacità di adattamento e trasformazione: un blend bianco audace composto principalmente da Cannonau (60%) vinificato in bianco, accompagnato da Vermentino, Arvesionadu e altre varietà locali, che dimostra come la tradizione possa evolversi in forme nuove e sorprendenti.
Trullallà ha una storia divertente. Il nome deriva da un aneddoto familiare: il padre di una socia, non riuscendo a spiegare a dei turisti stranieri che l’acqua di una vasca in campagna non era potabile perché torbida, utilizzò il termine sardo “trulla”, che significa appunto torbida. Quando gli chiesero dell’altra fonte, rispose semplicemente “se è trulla lì e trulla là”.
Un nome che si adatta perfettamente a questo vino rifermentato in bottiglia con fermentazione spontanea, che mantiene volutamente la sua natura torbida, sposando perfettamente il metodo ancestrale con cui viene prodotto. È un vino che celebra la semplicità e l’autenticità, trasformando quello che potrebbe essere considerato un difetto in un elemento distintivo di carattere.
Il pranzo del 2 febbraio: Mussura e Pierluigi Fais di Josto a Casa Pili

L’evento di domenica si è svolto in una location significativa: la casa storica dell’onorevole Paolo Pili, figura che ha segnato la storia di Seneghe non solo come enologo ma come vero pioniere dello sviluppo locale. Quelle stesse mura che hanno visto nascere progetti di rinnovamento del territorio hanno accolto una nuova generazione di sognatori pragmatici.

In questo contesto carico di storia, lo chef Pierluigi Fais del ristorante Josto ha creato un percorso gastronomico capace di dialogare con i vini di Mussura, intrecciando tradizione e contemporaneità in ogni piatto.

Il menu si è aperto con una vera dichiarazione d’intenti: la sua interpretazione di cacio, pepe e menta, un piatto che gioca con temperature e consistenze. Una quenelle di sorbetto alla menta crea un contrasto termico sorprendente con il pecorino Fiore Sardo grattugiato, mentre l’olio extravergine d’oliva aggiunge quella nota avvolgente che lega tutti gli elementi. È un piatto che parla di territorio ma lo fa con un linguaggio contemporaneo, proprio come i vini di Mussura.

Il percorso è proseguito con una tartare di pecora con mandorla e karkade, dove la delicatezza della carne trova equilibrio nelle note acidule del karkade.

La zuppa di erbe e casizolu ha poi portato in tavola la biodiversità del territorio: le erbe spontanee raccolte poco prima nelle campagne del Montiferru ne raccontano il luogo, mentre il casizolu, formaggio vaccino a pasta filata tipico di questa zona, aggiunge profondità e carattere al piatto.

I due primi piatti li ho trovati meravigliosi. Il risotto con mandorle, capperi e limone è una composizione di sapori mediterranei perfettamente bilanciati, dove l’acidità del limone e la sapidità dei capperi creano una base perfetta per la dolcezza delle mandorle.

Ma è con la fregula con brodo di pecora e pecorino che lo chef ha voluto sottolineare il carattere conviviale del pranzo: servita direttamente dalla pentola al centro del tavolo, ha trasformato il gesto di servirsi in un rituale di condivisione, ricordando i pranzi domenicali delle famiglie sarde.

Il pranzo si è concluso con la pecora arrosto accompagnata da un’insalata alla sapa, un grande classico di Fais che mi fa sempre sorridere il palato, dove la dolcezza del mosto cotto crea un contrappunto perfetto con la sapidità della carne, e un rinfrescante sorbetto agli agrumi che ha pulito il palato lasciando una sensazione di leggerezza.
Ciò che ha reso speciale questo pranzo è stata la composizione della sala: attorno ai tavoli di una casa antica, arredata con strumenti del passato, si sono ritrovate persone provenienti da tutta la Sardegna e non solo, ognuna con la propria storia di legame con il territorio, una coppia inglese, trasferitasi a Quartu negli ultimi anni, che ha scelto la Sardegna non come semplice meta turistica ma come luogo dove costruire una nuova vita, attratta proprio da storie come quella di Mussura.
Questo pranzo è diventato così metafora perfetta del progetto stesso: un momento in cui il cibo, il vino, le persone e le storie si sono intrecciati creando qualcosa di nuovo pur rimanendo profondamente ancorati alla tradizione. Un rito collettivo che celebra non solo il gusto ma soprattutto la scelta di prendersi cura del proprio territorio, dimostrando come la tavola possa diventare luogo di incontro tra passato e futuro, tra locale e globale, tra tradizione e innovazione.
La comunità come atto di resistenza
Ciò che accade a Seneghe è la dimostrazione che tornare nelle aree interne può rappresentare l’atto rivoluzionario del nostro tempo. In un’epoca in cui l’urbanizzazione sembra l’unica strada possibile e lo spopolamento dei borghi viene accettato come destino ineluttabile, questi undici giovani stanno tracciando una via alternativa.
Hanno scelto di trasformare ciò che troppo spesso viene visto come un limite – la distanza dai centri urbani, la parcellizzazione dei terreni, l’eredità di pratiche agricole tradizionali – in punti di forza. Non si limitano a produrre vino: stanno rigenerando un territorio attraverso un delicato equilibrio tra innovazione e tradizione, tra competenze contemporanee e saperi antichi. La loro storia ci insegna che la vera resistenza culturale oggi sta nel saper leggere il territorio non come un museo da preservare, ma come un laboratorio vivo dove sperimentare nuove forme di comunità.
È una lezione preziosa per tutte le aree interne: il ritorno non è una resa, ma l’inizio di una rivoluzione. Basta avere il coraggio di immaginare un presente e un futuro diverso con la determinazione di costruirlo.
COOPERATIVA DI COMUNITÀ MUSSURA
Seneghe